
Evasione
VIA DI FUGA
Pioveva a dirotto e prendere la metropolitana non era stata la scelta più azzeccata. Procedevano a stento sotto l’acqua verso il capolinea della linea rossa. Benedetta trascinava la sua piccola Andrea, che tanto piccola non era più, stringendole così forte la mano che poco ci mancava la strizzasse come uno straccio del pavimento. Dall’altra, cercava di mantenere in equilibrio l’enorme faldone, testimone impietoso della loro disgrazia. L’ombrello oscillava compromettendone l’utilità ed entrambe gocciolavano come il cielo, carico di nuvole minacciose. Si infrattarono, il più in fretta possibile, sotto terra e, con gesti secchi ed incuranti, si fecero scivolare via le ultime lacrime di pioggia. A quell’ora i vagoni erano già insolitamente pieni e si risolsero a stare in piedi, attaccate alla sbarra di metallo, come salami a stagionare. Anche se la destinazione era sempre la stessa, Andrea era eccitatissima all’idea di questo viaggio nella normalità, dopo anni passati sottovuoto per non contaminarsi. Dondolava come al parco giochi, facendosi trattenere dal freddo del metallo e dal calore del ventre materno. Benedetta si lasciava tamburellare, insensibile ai colpi delicati della figlia, a quel richiamo ritmico, costante, che l’accompagnava quotidianamente da quando era rimasta incinta. Già dopo una manciata di fermate, il peso del suo carico le parve insopportabile e si fiondò nell’unico posto libero. Andrea, imbronciata, si appoggiò sulle sue gambe e Benedetta, avvolgendola in un ampio abbraccio, abbandonò la testa sulla schiena infantile che la invadeva. Chiuse gli occhi e si immaginò una figlia diversa, quella che per anni aveva abitato i suoi sogni.
– Mamma, è la prossima. Sbrighiamoci!
Sobbalzò e ripiombò, senza paracadute, nella realtà. Uscirono, facendosi strada tra le spalle, i gomiti, le borse e gli ombrelli, facendo breccia in quel muro umano pieno di vita, fatto di odori e di respiri, di voci e di sospiri.
– Speriamo abbia smesso di piovere.
Benedetta buttò fuori il pensiero come un soffio e Andrea lo colse al volo, non se lo fece sfuggire.
– Perché mamma? È così bello stringersi, strette strette, e fare lo slalom tra le pozzanghere.
I loro sguardi si fissarono tra la gente, il mondo intorno si spense e parlarono a bocca chiusa per un istante dal sapore di infinito.
– Andiamo, che si fa tardi.
Benedetta spezzò l’incantesimo e salì la gradinata trafelata, incurante della pesante soma. Piazza Duomo era una pista di ombrelli grigi e il rosso del loro spiccava come un fungo velenoso nel sottobosco. Si incamminarono per via Larga, intrufolandosi tra le auto in coda. Benedetta si trascinava dietro la figlia come un trolley di valore, evitandole contraccolpi pericolosi. Andrea avrebbe voluto rallentare, illudersi di essere lì per fare shopping, dimenticarsi il suo dovere, non assolverlo almeno per una volta, una sola volta. Ma a quale prezzo? Scosse la testa per farsi scivolare via ogni tentazione. Un’automobile si accostò al marciapiede, proprio di fronte a loro, ostruendo la discesa. Era una vecchia utilitaria verde bottiglia, simile a quelle dei panettieri per il trasporto delle ceste bianche, cariche di michette. Alla guida due occhi dolci e profondi, acque misteriose in cui immergersi arrendevoli. Andrea si rintanò, acquattata, dietro al faldone. Subito, aveva intuito il pericolo imminente e, tirando la giacca della madre, cercava di riportarla a sé. Benedetta fu trafitta in un istante da tutte le promesse implicite, inscritte in quella portiera spalancata. Assaporò quelle labbra sottili, accarezzò le onde nere della sua folta chioma, immaginò le sue mani scivolare morbide come sulle curve del volante.
– Un passaggio?
Ad ogni fremito, ispirato dalle infinite possibilità di quell’invito, Benedetta si sentiva sempre più leggera. All’acquolina che lenta la invadeva, offuscandole la ragione, si accompagnavano mille motivi per non rifiutare e, finalmente, lasciarsi andare. Nella testa, ormai grondante di pioggia, i “perché no?”, i “chi me lo impedisce’”, gli “adesso o mai più” si scontravano come palline di un flipper che suonava impazzito. Andrea le aveva strappato l’ombrello e cercava di pararlo, a mo’ di scudo, tra la madre e il diabolico autista. Quella macchia rosso fuoco davanti ai suoi occhi si trasformò, invece, in una muleta nella plaza de toros, incitandola alla carica, incurante del rischio di essere infilzata. Con gesti taurini, strisciò il tacco ripetutamente sul marciapiede, nell’intento di rafforzare la spinta del salto incipiente. Prima di lanciarsi oltre l’ostacolo, occupare il posto che le spettava di diritto e partire per la sua avventura, lanciò il faldone contro la figlia che cercava di trattenerla: una deflagrazione.
– Mamma, mamma!
La voce implorante di Andrea, la sue mani pietose, la risvegliarono.
– Signora, tocca a voi, è il vostro turno. Il neurologo vi sta aspettando.
Benedetta spalancò gli occhi, spaesata, si alzò dalla sedia in plastica, raccattò da terra il raccoglitore con gli esami di Andrea e si sistemò i capelli arruffati. Si diresse veloce verso la porta dell’ambulatorio e si bloccò d’acchito, si girò e abbracciò la figlia, stretta stretta.
– Certo, mamma, che oggi sei proprio stramba! Ti sei, persino, addormentata nelle sala d’aspetto.

