
Abscissione sentimentale – Frammento 3
“Leviathan” risuona per il salotto, il whisky ondeggia nel bicchiere al movimento ipnotico del polso, lo sguardo fisso alla cornice sul pianoforte.
– Non riesco a capire cosa volesse dirmi con quella frase. Si riferiva alla mia inequivocabile sbadataggine o intendeva altro. Non mi convince quella donna e se ha ragione l’Adele che quella traffica con il paranormale. Come faceva a conoscere i gusti di Elvira?
Anni addietro avrebbe lasciato perdere; adesso, però, ha molto tempo a disposizione, qualche dubbio di troppo e una notevole cocciutaggine senile.
L’Adele apre la porta, come ogni mattina, alle nove e trasalisce alla vista del suo padrone, sull’attenti, vestito di tutto punto che si sta calcando il cappello in testa.
– Mamma mia, sciur Vittorio, mi vuol far stramazzare? Che ci fa qua dietro?
– Veramente, sarei a casa mia.
– Intendo dire già in piedi. È successo qualcosa?
– No, sto uscendo.
– Così di buon mattino?
– Così di buon mattino, Adele. Ci vediamo tra un paio d’ore.
– Come vuole, se non ci incrociamo le lascio un biglietto per eventuali comunicazioni. Al solito posto, sulla ribaltina. Buona passeggiata.
Il negozio questa mattina è pieno e Vittorio suona controvoglia, non ama far coda, ma ne approfitterà per studiarsi la strega.
– Buongiorno Vittorio, si accomodi, sarò presto da lei.
Accenna un assenso con la mano, si toglie il cappello e si siede pensieroso sulla panchetta. Come diavolo fa a conoscere il mio nome, forse mi è sfuggito e non ricordo. Accidenti, sto iniziando a perdere colpi.
– Eccomi, come è andata la cornice?
– Sta benissimo, la ringrazio.
– Ne ero certa che avrebbe smesso di scordarsi Elvira per casa.
Riecheggia una risata cristallina e Vittorio si immagina gli argenti vibrare all’unisono.
– Mi scusi, ma lei come fa a conoscere il mio nome e quello di mia moglie?
– Sulla foto.
Vittorio aggrotta perplesso le sopracciglia.
– Sul retro della foto c’è una dedica.
– Ah, certo, che stupido.
In realtà, non si ricorda affatto della scritta e si ripromette di verificare non appena giunto a casa.
– Vuole un’altra cornice per qualche altro ricordo?
– No, dovrei cambiare il cinturino al mio orologio.
– Può andare bene in coccodrillo?
– Va bene, purché sia blu.
– Passi domani a ritirarlo.
Il viaggio di rientro è sotto la pioggia battente e si pente di aver ceduto alla curiosità per ricavarne un pugno di mosche. Pulisce le scarpe sul tappeto in maglia di metallo del cortile, sbatte l’ombrello aprendolo e chiudendolo ripetutamente, scrolla il cappello dall’acqua. La casa è silenziosa, l’Adele ha fatto presto e sulla ribaltina non ha lasciato nessun messaggio. Meglio così, una rogna in meno, quando scrive è sempre per lamentarsi di qualcosa.
Non si cambia, tanto smania di controllare la fotografia. Si fionda al pianoforte e sotto la cornice trova un foglietto: “Il brodo è nel frigo, sotto trova gli agnolini e sul lavandino le coste lesse. Si ricordi il detersivo della lavatrice che manca sempre qualcosa!”
– Quell’infame mi prende anche per i fondelli, guarda dove ha lasciato l’appunto.
Lo accartoccia e lo lancia sul divano, per poi cimentarsi con l’estrazione della fotografia dalla cornice. La ribalta e nell’angolino destro trova la scritta con una grafia malferma che non riconosce: “A Vittorio, la tua Elvira.” Che strano, passi l’essersi dimenticato la dedica, ma quella scrittura non appartiene alla moglie e, poi, figuriamoci: Elvira non avrebbe mai scritto un pensiero così banale.
Vittorio non ne può più, un presentimento angoscioso lo paralizza, che stia impazzendo anche lui?
“Sono fuori. Vittorio.” Appiccica un post-it sulla porta d’ingresso ed esce prima delle nove, per non incrociare l’Adele. Gironzola tra le strade del quartiere in attesa dell’apertura della gioielleria. Essendo già al terzo giro del quadrilatero e mancando ancora una mezz’ora buona, valuta di prendersi un caffè nel baretto all’angolo, un finto circolino per anziani. Si fa largo tra signore ciarliere e vecchi bellimbusti con sguardo di disapprovazione e il disagio per non essersi rasato e pettinato.
– Posso offrirle un caffè?
La gioielliera lo supera in cassa ed estrae una banconota, privandolo di un’alternativa.
– La ringrazio.
– Sediamoci là in fondo. Staremo un po’ tranquilli.
Vittorio la segue come un cagnolino, grato di liberarsi del baccano. Fuori dal negozio, seduta davanti a lui a così poca distanza, sembra una burrosa sessantenne che ha fatto pace con se stessa. Sfoggia disinvolta un intrico di ricci grigi, crespi e selvaggi, un jeans informe e sbiadito, uno scialle screziato nelle sfumature del giallo, senza dubbio opera sua.
– Prego, ne assaggi uno. Mi sembra abbia bisogno di una coccola.
Sospinge verso la sua tazzina un piccolo cabaret di bignè assortiti, grandi poco più di una noce, con papaline colorate in base al gusto.
– Avanti, sono certa che è da mesi che non si controlla il glucosio. Non sarà di certo un pasticcino a farle venire il diabete.
Vittorio esita con la mano per aria.
– Prenda quello alla nocciola.
– Ormai, non so perché, ma sono certo che lei mi conosca da una vita.
– Bene, mi fa piacere si senta a suo agio.
– Lo sa bene che non intendevo dire questo.
È arrivato il momento di giocare a carte scoperte, ne va della sua tranquillità, della sua salute mentale.
– Allora, sa anche bene cosa deve fare.
Il tono diretto lo colpisce come una fitta di mal di testa.
– Non sono un uomo coraggioso, non lo sono mai stato.
Abbassa lo sguardo nel tentativo di nascondere la vergogna. La gioielliera si allunga, afferra la povera mano del vecchio e la scalda in un gesto familiare.
– Coraggioso non proprio, ma buono sì.
Ritrae la mano e si alza.
– Ne mangi quanti ne vuole, l’aspetto a ritirare l’orologio a cose fatte.
L’auto procede a buona velocità e Vittorio si sente più vitale, curva dopo curva. Erano anni che non guidava così sicuro sui tornanti, resi scivolosi dalle foglie di acero. Il foliage è sempre stata una sua fissazione. Insisteva fino allo sfinimento, finché non otteneva di essere portata in qualche posto fuori mano.
– Sai perché le piante perdono le foglie?
Le piaceva dare lezioni.
– No, Elvira. Non ci ho mai pensato.
Vittorio amava darle la possibilità di insegnargli.
– Per sopravvivere. Quando il nutrimento scarseggia, innescano un processo di autoprotezione contro il disseccamento, in previsione dei rigori invernali.
– Si tolgono la zavorra.
Semplificava il suo scolaro indisciplinato.
– Sì, potremmo dire così. Però, prima di cadere, si crea nel punto di attacco una gelatina per interrompere ogni connessione tra ramo e foglia.
– Una cicatrice.
– Sì, poi vento e pioggia portano a compimento il distacco.
Alzava la testa verso le chiome offese e lasciava che le foglie secche le sfiorassero il volto nella caduta. Vittorio veniva travolto da una nostalgia insopportabile e avrebbe voluto abbandonarla nel bosco, in compagnia dei suoi pensieri. Poi si abbassava, coglieva le più colorate, preferibilmente quelle rosso acceso e componeva un bouquet che timidamente le porgeva, nel timore di disturbarla. Elvira si animava e dimostrava sempre una gratitudine eccessiva.
Oggi, il tragitto gli sembra più corto e inaspettatamente si trova già di fronte all’ingresso. Troppo presto, non si sente ancora pronto a scendere. Il parcheggio è deserto, difficilmente ci sono visite in settimana. Spegne il motore e aspetta che finisca la musica, con la scusa di non voler interrompere la canzone. Si aggiusta i capelli, chiude il loden e prende un bel mazzo di ortensie indaco dal sedile posteriore.
– Buongiorno, signor Luciani.
– Buongiorno.
– Non sa che piacere rivederla. È tanto che l’aspettiamo.
Vittorio si schernisce, non sa che dire. Piomba tra i due un silenzio imbarazzato.
– È in giardino che l’aspetta, al solito posto. Le concediamo di uscire tutti i giorni, anche in inverno, a patto che non insista quando piove.
Vittorio procede lungo il corridoio, supera la portafinestra del salone e scende nel prato, verso una panchina rivolta al bosco.
– Ciao, Elvira.
Le si siede accanto, senza guardarla, entrambi rivolgono lo sguardo agli alberi. Soli e in silenzio, aspirano l’uno il profumo dell’altro, immobili. Vittorio inspira più profondamente, quasi gli mancasse l’aria per parlare.
– Mi dispiace, non sono stato capace.
Elvira poggia la sua mano su quella del marito e la stringe: è ancora lei ad incoraggiarlo. Le accarezza, allora, le lunghe dita affusolate da pianista e non si sorprende alla vista, sul polso sottile, del suo grosso orologio, col nuovo cinturino blu.
– Ti sta bene.
Negli occhi coglie la luce maliziosa di un tempo, le cinge le spalle, l’attira a sé e la protegge con il corpo da un turbine di foglie secche, trasportate dal vento.
