Racconti a frammenti

Abscissione sentimentale – Frammento 1

Il cancello se lo ricordava di un bel verde pino, incorniciato da rami d’edera e immerso nell’aroma intenso dell’alloro. La prima visita alla villa risaliva ad alcuni anni prima. Elvira era bellissima nel suo vestito viola, mentre si lasciava trascinare docile dalla sua mano, con gli occhi bendati e il sorriso radioso di chi sa farsi amare.

– Quanto manca?

Non trattenne una risatina civettuola, armeggiando con la seduzione come una bambina. Era ingenua, disarmata e si fidava di lui, le metteva pace, placava quei pensieri bui che di colpo la facevano precipitare nel baratro, in quella disperata solitudine che mostrava solo al marito. 

– Ancora due passi e ci siamo.

Sente ancora scivolargli sotto i polpastrelli la seta leggera, il calore morbido della schiena e l’asprezza di quel nodo che non voleva sciogliersi. 

– Accidenti, se non ti libero, non potrai far altro che immaginartela.

Elvira mostrò un’impazienza infantile. Puntò i piedi per capriccio.

– Vittorio, non scherzare. Non sto più nella pelle.

A quel comando, l’attirò a sé, le mostrò orgoglioso il suo desiderio e lei si strappò la benda per poi richiudere gli occhi e immergersi nel bacio.

Adesso, armeggia con un rumoroso mazzo di chiavi, cercando di sfilarlo dalla custodia di finta pelle bordeaux, troppo piccola per contenere tutta quella ferraglia, di cui ormai non sa più che farsene. Il cancello è arrugginito, l’edera tagliata, amputata. Solo l’alloro è diventato un albero e il suo profumo persiste, nonostante tutto. La chiave serve per un grosso lucchetto che chiude un catenaccio, come una cravatta di metallo tra i due battenti. Cerca di aprire il cancello che non vuole saperne di muoversi. Vorrebbe prenderlo a spallate, ma si risolve a farsi largo, con metodica insistenza, da un piccolo spiraglio. Tutto è abbandonato, sterpaglie ovunque, nulla a che fare con la casa di cui si erano innamorati. Vittorio aveva fatto peste e corna per aggiudicarsela, perché Elvira la voleva come mai aveva desiderato qualcosa in vita sua. Quell’urgenza di possederla lo aveva talmente animato da renderlo cieco di fronte a quell’investimento poco conveniente, sordo a tutti i tentativi dei suoi consulenti per convincerlo a lasciar perdere. Finalmente Elvira avrebbe trovato pace, pensava. 

Domani verrà l’impresa a ripulire e poi ci sarebbe venuto ad abitare, da solo. Fino all’ultimo aveva lottato con l’indecisione, ma quell’immobile sembrava invendibile: troppo grande, troppo isolato, troppi lavori da farci e avrebbe dovuto se non regalarlo, sicuramente svenderlo. E poi, Elvira cosa avrebbe pensato?

– Signor Vittorio, ancora due viaggi con il furgoncino e abbiamo finito.

Il piccolo egiziano danza tra i sacchi e gli scatoloni, dispensando ordini nella sua lingua flautata e, di tanto in tanto, lo aggiorna sull’avanzamento dei lavori. Gli si avvicina e con fare cerimonioso decanta i pregi della nuova sistemazione. È evidente che avrebbe fatto miglior servizio a lui, con i suoi sei figli, che non ad un vecchio triste e solo. Vittorio si sente quasi in colpa per quella differenza di possibilità che vive come un’ingiustizia. Eppure, se solo avesse potuto riavere la sua felicità in cambio di tutte quelle cose, non avrebbe esitato un solo istante a cederle.

L’androne tirato a lucido, con la scala in marmo rosso, le pareti in mogano e le lanterne antiche, che diffondono luce soffusa, non lo impressiona. Ritiene, anzi, impegnativa quella rampa per accedere agli appartamenti.

– Vedi Vittorio – indicando alla sua destra – quando litigheremo, mi rifugerò di qua e tu devi promettermi che non mi cercherai. 

Sosta davanti alla porta del piccolo bilocale che Elvira aveva opzionato subito per difendere la sua solitudine, sapendo bene che non avrebbero mai litigato e che, comunque, lei ci si sarebbe rifugiata spesso, forse ogni giorno, anche solo per un’ora. Quella porta non l’avrebbe mai più aperta, cullandosi nel sogno di saperla seduta a terra con i suoi fantasmi, a scacciare la paura, per tornare infine da lui. La porta dell’altro appartamento, quello grande, con quattro camere, il salone e persino la lavanderia, è spalancata e l’impulso è quello di scappare, ma alla sua età non saprebbe da chi andare. Le figlie sono lontane, i nipoti quasi degli alieni, inghiottiti dagli schermi come in un film dell’orrore.

– Vittorio, coraggio.

Una voce sussurra alle sue spalle, si volta di scatto e la porta a vetri dell’ingresso si spalanca, spinta dal vento. 

– Accidenti, non l’ho chiusa. 

Gira la chiave fino in fondo e mette l’allarme: è pur sempre un uomo solo in mezzo al deserto. La prima notte passa e così anche le successive: un sonno profondo, quasi una catalessi. Da giorni si risveglia in poltrona ancora vestito, con un libro rovesciato sul petto e il telecomando conficcato tra il bracciolo e il cuscino. Per fortuna la televisione si spegne da sola, facendogli compagnia nella prima parte della notte come il sonnifero che ogni sera, alle undici esatte, inghiotte speranzoso insieme a due dita d’acqua.

– Sciur Vittorio, quando la finirà di dormire in salotto? Ha un bel letto in camera che di sicuro è più comodo.

L’Adele ogni mattina riinizia la sua litania, con la convinzione che tanti anni di onorato servizio l’autorizzino a dir sempre la sua.

– Te ghe resun Adele. Sono proprio un vecchio sciocco e ti confido che quella camera mi fa un po’ paura.

Fa capolino dal corridoio interminabile con lo straccio in mano e l’aria indaffarata. Lo sbircia sulla sedia da regista, che si è portato gelosamente dietro, con la tazza da caffè e il giornale aperto sul tavolo. Se la ricorda anche lei Elvira al suo fianco, persa a guardarlo mentre legge, incantata da chissà cosa, non l’ha mai capito.

– Sciur Vittorio, dia retta a me, non è scappando che le cose si sistemeranno.

– Hai ragione Adele, stasera ti prometto che dormirò nella mia stanza.

Si lascia scappare l’ennesima promessa da marinaio, mentre sfoglia distrattamente il quotidiano.

– Ah, la smetta poi di lasciare in giro questa foto o finirà per perderla.

Stizzosamente pianta la mano aperta sulla ribalta all’ingresso, facendo vibrare l’aria. Non capisce di cosa si tratti, ma non ha nessuna intenzione di cedere a quell’insolente. Stavolta ha esagerato.

– Ci vediamo domani. Le ho lasciato un pezzo di bollito nel frigo, l’ho preparato ieri. 

– Grazie Adele, sei un tesoro.

– Venga a chiudere, però. Che qui c’è poco da star tranquilli. Dovrebbe prendere un bel cane. Non di quelli ridicoli e riccioluti che piacciono alle signore. Dovrebbe prendere un bel pastore tedesco, anzi due. Così se ne accoppano uno, ha quello di riserva.

– Oh Adele, mi mancano solo delle bestie in questa casa.

Avvicinandosi alla porta, lancia un’occhiata alla ribalta e sbianca come un fantasma. 

– Sciur Vittorio, tutto bene?

L’Adele è ignorante, ma nient’affatto stupida, né tantomeno insensibile e coglie immediatamente quel cambio d’espressione.

– Dove l’hai pescata questa fotografia?

Si avvicina, tenendosi a debita distanza.

– Oggi l’ho trovata nel cesto della biancheria, ieri sulla poltrona nello studio e l’altro giorno ancora in bagno, tra il rasoio e la schiuma da barba. Deve decidersi ad incorniciarla se non vuole vada persa.

Si carica sulle spalle il sacco delle camicie da stirare e se ne va. Grosse lacrime gli annebbiano la vista e il sorriso di Elvira sbiadisce, i capelli si confondono con l’oceano, i vestiti con la sabbia. Non riesce a fermarsi, a mettere a fuoco quel vecchio ricordo. L’aveva cercata disperatamente, scartabellando ovunque, scavando come uno ossesso negli scatoloni, ma di quella foto in Normandia nemmeno l’ombra.

– Smettila di muoverti che non riesco a scattare.

Correva, libera. Vittorio cercava sempre di fermarla, di trattenerla per un attimo soltanto, per respirare il suo profumo o semplicemente per guardarla.

– Sciocca che sei, Elvira. Mi hai piantato in asso e ora mi tormenti.

Tiene stretta quell’immagine senza sgualcirla, con rispetto, e la ripone con attenzione nel secretaire in studio.

– Da qui non scappi più.

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